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    03/08/09

    USA: le nuove sfide di Obama

    Passati ormai i primi sei mesi di amministrazione Obama, è presto per fare un bilancio ma è arrivato il momento in cui l'entusiasmo e le speranze lasciano il passo alla concretezza.
    Alla riapertura dei lavori congressuali, Obama si troverà a dover affrontare subito le sfide che si è posto in campagna elettorale. E dovrà anche cercare di vincerle subito, perchè nel 2010 si terranno le elezioni di medio termine che riguardano 435 membri della Camera e un terzo dei membri del Senato, e che quindi potrebbero modificare significativamente l'assetto del Congresso se i Repubblicani riuscissero a recuperare alcuni stati "rossi". La situazione è particolarmente delicata al Senato, dove quasi sicuramente i Democratici non riusciranno a mantenere la maggioranza assoluta di 60 membri e si troveranno quindi a dover subire l'ostruzionismo del Gop. Successivamente inizieranno le manovre per le presidenziali 2012, e insomma se Obama vuole portare a buon fine il suo programma, deve farlo nei prossimi 12 mesi.

    Una buona notizia arriva sul fronte della Suprema Corte. La conferma della nomina di Sonia Sotomayor sembra scontata, dopo che la candidata ha superato indenne le audizioni alla Commissione Giustizia del Senato, dove ha ricevuto anche voti dai Repubblicani. Riuscire a far insediare facilmente un giudice alla Corte Suprema senza scandali e ripensamenti rafforza sempre l'immagine del presidente.

    Notizie meno buone riguardano l'economia. Il piano di stimolo di Obama e Geitner ha permesso di rallentare la recessione, e l'economia americana dovrebbe tornare in positivo già dal prossimo bimestre, le banche sono uscite dalla crisi e stanno restituendo i prestiti al governo, e gli incentivi per acquistare auto a basso consumo sono esauriti in tempi record. Purtroppo la disoccupazione continua ad aumentare, e nessuna ripresa economica sarà avvertita nella popolazione fin quando le aziende non riprenderanno ad assumere. Obama lo sa bene ma al momento non può fare altro che attendere l'effetto positivo delle grandi opere annunciate, perchè per il momento sono fuori discussione altri aiuti, anche perchè il restante budget serve per la riforma sanitaria.

    E qui arrivano le dolenti note. Quando Obama aveva promesso la copertura universale della sanità pubblica, la situazione economica americana non era così drammatica. Il presidente non può però rimangiarsi la promessa nè tantomeno rimandarla. Di fatto, su questo si gioca la sua credibilità, e i Repubblicani sono convinti di poter abbattere Obama se abbatteranno il suo piano. Anche tra i Democratici degli stati industriali ci sono perplessità per il piano sanitario che prevede costi enormi da parte del governo federale, che potranno essere sostenuti solo con nuove tasse. Anche se Obama ha assicurato che le imposte riguarderanno solo i redditi altissimi, l'introduzione di nuove tasse fa sempre storcere il naso. Obama ha però insistito sulla riforma, evitando di fare quel passo indietro che gli sarebbe servito per evitare contraccolpi ma che in pratica avrebbe affossato il piano.

    C'è poi il fronte estero. L'amministrazione Obama si è dimostrata poco interventista in Iran e Honduras, e a ragion veduta: in entrambi i casi un intervento diretto avrebbe portato più danni che altro. C'è da completare il ritiro dall'Iraq, dove gli Usa sono rimasti da soli dopo il ritiro di Inghilterra e Australia, e poi c'è l'Afghanistan. Dopo le elezioni del 20 agosto Obama inizierà a pensare a una exit strategy. Il presidente non ha avuto ripensamenti sull'importanza strategica del fronte afghano, ma l'accrescere delle tensioni in Iran e i continui attentati dei talebani spingono per un più rapido passaggio di potere all'autorità di Kabul, con un ruolo più defilato per le truppe americane.

    25/07/09

    Honduras: Zelaya prova a rientrare

    Il presidente deposto dell'Honduras Manuel Zelaya ha provato oggi a forzare la mano rientrando in patria dall'esilio che si sta prolungando da settimane, così come le trattative per arrivare a una soluzione diplomatica che eviti una guerra civile.
    Nel corso della settimana si sono arenati i colloqui guidati dal presidente del Costa Rica Oscar Arias, che aveva proposto un reintegro in carica per Zelaya a patto che rinunciasse alla riforma costituzionale e che approvasse un'amnistia per i golpisti. Il presidente golpisca Micheletti ha però respinto qualsiasi soluzione che preveda un reintegro di Zelaya. Il presidente deposto, forte del consenso internazionale, aveva annunciato che in caso di fallimento delle trattative sarebbe rientrato comunque a Tegucigalpa, e così ha fatto, sia pure in maniera simbolica. Accompagnato da sostenitori e giornalisti, Zelaya è arrivato al posto di confine di Las Manos, tra Nicaragua e Honduras, ha attraversato la linea di demarcazione tra i due stati, rimanendo sul suolo honduregno per qualche minuto per poi riattraversare la frontiera sotto lo sguardo minaccioso delle guardie doganali.
    Nel frattempo, nelle città sono scesi in piazza i suoi sostenitori, tenuti però a distanza dal confine, e anche i sostenitori di Micheletti. Quest'ultimo ha accusato Zelaya di essere irresponsabile e di voler fomentare la guerra civile, minacciandolo di arresto immediato se metterà di nuovo piede in Honduras.
    Gli Usa, sebbene appoggino Zelaya, hanno criticato l'iniziativa di oggi. Hillary Clinton lo ha definito "un atto di imprudenza".

    17/07/09

    Honduras: si tratta per una soluzione

    Fallita la prova di forza del presidente Zelaya, che la settimana scorsa ha provato a rientrare in Honduras fomentando la ribellione dei suoi sostenitori, e svanita anche la possibilità di un intervento diretto degli Stati Uniti, si cerca ora una soluzione diplomatica che ristabilisca lo stato di diritto nello stato centroamericano senza arrivare a uno scontro o peggio, all'intervento armato di altri stati come Venezuela e Nicaragua.
    Il presidente del Costa Rica Oscar Arias (nella foto), già premio Nobel per la Pace, che si sta occupando dei negoziati, porterà domani alla riunione prevista a San Josè una soluzione che preveda il ritorno alla presidenza di Manuel Zelaya - che però rinuncerebbe alla riforma costituzionale per una sua rielezione oltre il secondo mandato - la nascita di un governo di "riconciliazione nazionale" e l'approvazione di un'amnistia per i golpisti.
    Dopo aver ascoltato esponenti dei governi latinoamericani ed europei - tra i quali anche il sottosegretario italiano agli Esteri Vincenzo Scotti -, i responsabili di molte organizzazione internazionali, Onu e Osa (Organizzazione degli stati Americani) in testa, Arias avanzerà “varie proposte” per chiudere la crisi, anche se i due contendenti Zelaya e Micheletti saranno assenti dal summit.
    “Vediamo se è possibile comporre un governo di riconciliazione nazionale in carica poco meno di sette mesi”, ha detto Arias. “Vediamo poi se sarà possibile parlare di una amnistia" ha detto Arias, riferendosi alla precondizione posta da Micheletti per il ritorno di Zelaya. “Il presidente Zelaya - ha poi aggiunto, riferendosi alle riforme costituzionali - credo che dovrà abbandonare la sua pretesa di allestire la ‘quarta urna’ alle prossime elezioni", riforma bocciata dall'alta magistratura honduregna. Qualsiasi soluzione, ha però ribadito Arias, non potrà prescindere dal reintegro di Zelaya al suo posto: “Il ristabilimento dell’ordine costituzionale passa per la restituzione del presidente José Manuel Zelaya”, ha spiegato dopo aver ricordato “che se Micheletti è disposto a rinunciare per consegnare il potere ad altri non è una soluzione”. La preoccupazione del mediatore, già premio Nobel per la pace, è quella di impedire la consolidazione “del governo de facto perché potrebbe essere un incentivo per i militari non solo in questo continente, ma anche in altre regioni del mondo”. Qualsiasi soluzione, ha però ribadito Arias, non potrà prescindere dal reintegro di Zelaya al suo posto: “Il ristabilimento dell’ordine costituzionale passa per la restituzione del presidente José Manuel Zelaya”, ha spiegato dopo aver ricordato “che se Micheletti è disposto a rinunciare per consegnare il potere ad altri non è una soluzione”. La preoccupazione di Arias è quella di impedire la consolidazione “del governo de facto perché potrebbe essere un incentivo per i militari non solo in questo continente, ma anche in altre regioni del mondo”.

    Israele prepara un attacco all'Iran?

    Israele e i governi occidentali stanno lavorando a un accordo che prevede il sostegno di gran parte della comunità internazionale a un attacco israeliano contro le installazioni nucleari iraniane, in cambio di concessioni di Gerusalemme nel negoziato di pace con l'Autorita' Nazionale Palestinese (Anp). Questa è la notizia bomba riportata dal quotidiano "The Times", e accreditata a un ufficiale britannico rimasto anonimo. Tale accordo permetterà in pratica ad Israele di sferrare un attacco contro l'Iran "entro un anno", in cambio di non meglio precisate concessioni ai palestinesi nell'ambito degli accordi per la nascita dello stato di Palestina.
    A conferma di questa notizia, che aprirebbe scenari impensabili nella situazione mediorientale, ma che non è ancora stata commentata da nessun governo occidentale, ci sarebbero le esercitazioni che l'esercito israeliano sta svolgendo nel Cnale di Suez. E' lo stesso articolo sul "Times" a spiegare che gli ultimi test ed esercitazioni militari condotte da Israele in questi giorni rappresentano ''un messaggio all'Iran'' che ''va preso sul serio'' e segnalano un clima di piu' intensa ''preparazione'' verso un possibile attacco contro gli impianti nucleari di Teheran. Lo sostengono fonti del ministero della Difesa israeliano. "Questa è una preparazione che va presa sul serio poichè Israele sta investendo tempo nel preparare se stesso di fronte alla complessità di un attacco all'Iran''. Il riferimento è in particolare alle manovre navali condotte di recente dallo Stato ebraico nel Mar Rosso, dopo l'attraversamento del canale di Suez con un sottomarino e almeno due navi da guerra. Manovre che, secondo la stampa israeliana, sarebbero state coordinate con l'Egitto sulla base dei comuni timori legati ai piani nucleari iraniani. A rafforzare ulteriormente il quadro e' inoltre di ieri sera la notizia della sperimentazione di un nuovo sistema antimissile in Israele che - riferiscono i comandi - si e' rivelato capace per la prima volta di intercettare razzi in volo.
    L'articolo aggiunge anche che Israele ha consolidato i rapporti con quelle nazioni arabe spaventate dal nucleare iraniano, come appunto l'Egitto

    13/07/09

    Ricostruire qualcosa di meglio - L'editoriale di Obama sul WP

    Domenica 12 luglio il "Washington Post" ha ospitato un intervento del presidente Obama. Questa è la traduzione integrale.

    Quasi sei mesi fa, la mia amministrazione è entrata in carica nel mezzo della più grave crisi economica dalla Grande Depressione. In quel momento perdevamo in media 70.000 posti di lavoro al mese. In molti temevano che il nostro sistema finanziario fosse sull'orlo del collasso.
    La rapida e aggressiva azione da noi intrapresa in questi primi mesi ci ha permesso di riportare il nostro sistema finanziario e la nostra economia lontano dal baratro. Abbiamo fatto dei passi per far ripartire i prestiti alle famiglie e le imprese, stabilizzare le maggiori istituzioni finanziarie e aiutare i proprietari di case a pagare i mutui. Abbiamo anche fatto approvare il più radicale piano di recupero economico della nostra storia.
    Sapevamo che The American Recovery and Reinvestment Act non sarebbe bastato da solo a riportare l'economia in piena salute, ma che avrebbe dato l'impulso necessario a frenare la caduta libera. Finora, ha funzionato. Era sin dall'inizio un programma biennale, che continuerà a salvare e crare posti di lavoro in estate e ancora in autunno. Dobbiamo lasciarlo lavorare nel modo in cui è stato pensato, con la consapevolezza che in ogni recessione l'occupazione tende a riprendersi più lentamente di altre attività economiche.
    Sono fiducioso che gli Usa sapranno superare questa tempesta. Ma una volta che avremo ripulito i rottami, la vera questione sarà cosa costruire al loro posto. Anche se salviamo l'economia, insisto nel dire che bisogna ricostuirla meglio di com'era. Perchè se non cogliamo l'attimo per affrontare le debolezze della nostra economia consegneremo noi stessi e i nostri figli a nuove crisi, alla recessione o a entrambi.
    Alcuni ci dicono di aspettare prima di intraprendere le grandi sfide. Preferiscono un approccio graduale pensando che non fare niente sia una soluzione. Ma questa è esattamente la filosofia che ci ha portato a questa situazione. Ignorando le sfide e rimandando le decisioni difficili è ciò che Washington ha fatto per decenni, ed è esattamente ciò che volevo cambiare quando mi sono candidato.
    Adesso è giunto il momento di costruire fondamenta più forti per la crescita, che non solo resistano alle future tempeste, ma che ci aiutino a competere in una economia globale. Per costruire queste fondamenta dobbiamo abbassare i costi delle cure sanitarie che creano debito, creare posti di lavoro entro i nostri confini, dare ai nostri lavoratori le capacità e la formazione adeguata per competere, e prendere le decisioni difficili per abbattere il nostro deficit.
    Stiamo già facendo progressi sulla riforma sanitaria, così come con la legge che ci permetterà di sfruttare l'energia pulita.
    Questa settimana parlerò di come dare ai nostri lavoratori le capacità per competere per questi posti. In un'economia in cui i lavori che richiedono almeno un diploma di college crescono il doppio di quelli che non richiedono titoli di studio, è essenziale continuare gli studi dopo le superiori. E' per questo che ci siamo posti l'obiettivo di portare tutti gli studenti al college entro il 2020. In parte lo faremo aiutando gli americani a potersi permettere l'iscrizione al college. In parte lo faremo rafforzando i college pubblici.
    Crediamo sia il momento di riformare i college pubblici per dare agli americani di tutte le età le abilità e le conoscenze necessarie per poter lavorare in futuro. I college pubblici possono diventare i centri di preparazione al lavoro del 21° secolo, lavorando con le imprese locali per formare le figur professionali di cui c'è richiesta. Possiamo reallocare i fondi per la modernizzazione degli impianti, aumentare la qualità dei corsi on-line e far diplomare 5 milioni di persone in più entro il 2020.
    Fornire agli americani le capacità di competere è un caposaldo di un'ecomia più forte, e, come la sanità e l'energia, non possiamo aspettare. Dobbiamo continuare a sbarazzarci delle macerie della recessione, ma è tempo di costruire qualcosa di meglio. Non sarà facile e ci sarà da prendere decisioni dure che abbiamo rimandato per troppo tempo. Ma le prime generazioni di americani non hanno costruito questo paese con la paura del futuro e limitando i loro sogni. Questa generazione deve dimostrare lo stesso coraggio e determinazione. Credo che ce la faremo.

    © Copyright The Washington Post Company

    12/07/09

    Il giramondo sbarca su Twitter

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    Nell'ottica di fornire aggiornamenti sempre più frequenti e puntuali, Il giramondo si apre al social network che negli ultimi mesi sta emergendo come l'avanguardia dell'informazione, Twitter.
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    07/07/09

    Honduras: Zelaya cerca l'appoggio degli Usa

    Il presidente esautorato di Honduras Manuel Zelaya, dopo il fallito tentativo di rientrare in patria di domenica, sarà oggi a Washington per incontrare il segretario di Stato Usa Hillary Clinton, al fine di valutare tutte le possibili vie diplomatiche che consentano il suo ritorno al potere dopo il golpe militare che lo ha deposto il 28 giugno scorso.
    Nonostante Zelaya sia inserito in quel gruppo di capi di stato fedeli alla linea anti-americana di Chavez (anche se Zelaya ha fatto sapere di essere un seguace di Lula, e non del presidente venezuelano) gli Usa hanno sempre condannato il golpe ai suoi danni, e la scorsa settimana lo stesso Obama aveva definito illegale l'esautorazione di Zelaya, e aveva detto che accettare il copo di stato sarebbe stato un "terribile precedente".
    Domenica scorsa, alle 17 e 25 del pomeriggio, l'aereo con a bordo Zelaya e alcuni capi di stato sudamericani come la presidente dell'Argentina Cristina Kirchner, ha cercato di atterrare all'aeroporto di Tegucigalpa. Ad accoglierlo, una folla di sostenitori presto allontanati dall'esercito, che come promesso dal presidente golpista Micheletti ha occupato la psita renendo impossibile l'atterraggio di Zelaya.
    Zelaya ha dovuto prendere atto della situazione e ha ordinato al pilota di tornare alla base, dichiarando "Il governo più forte, ossia gli Usa, potranno convivere con un golpista? Obama non può permetterlo. Sono un gruppo di mafiosi. Vogliono appropriarsi della ricchezza nazionale. Mi appello agli Usa che prendano misure immediate contro questo governo. Barbarie e terrore, ecco cosa sta accadendo. Dobbiamo pianificare nei giorni che vengono il mio ritorno in Honduras. Il popolo honduregno è capace di giudicare e si ribellerà contro un governo golpista, come sta già facendo. Questi golpisti lo manterranno nella miseria, senza permettergli partecipazione cittadina. Mi appello all'Oea".
    Il tentativo di rientro è stato accompagnato da violenti scontri in tutto il paese e in particolare nella capitale, dove i militari hanno represso nel sangue le manifestazioni in sostegno di Zelaya e hanno iniziato a sparare sulla folla. Si parla di due morti, ma le notizie non sono confermate. "Hanno ingannato tutto l'Honduras. Ci hanno lasciati passare per poi reprimerci con gas, bombe e spari. Ci sono due morti e molti feriti. E' stata un'imboscata", hanno denunciato in diretta i manifestanti ai microfoni di TeleSur.
    I nuovol governo guidato dal "golpista bergamasco" Roberto Micheletti non sembra intenzionato a negoziare il ritorno di Zelaya e ha finora respinto le soluzioni diplomatiche, nonostante la dura presa di posizione da parte di tutta la comunità internazionale.
    Al contempo, anche i tentativi del governo golpista di riallacciare le relazioni diplomatiche quantomeno con gli altri governi dell'area sono stati respinti al mittente. Micheletti ha provato ad inviare a Washington una delegazione che spiegasse le ragioni di quanto accaduto, ma il governo americano ha rifiutato il confronto non riconoscendo il nuovo governo.
    E nel frattempo il confinante Nicaragua, stato presso cui Zelaya ha trovato rifugio, viene accusato dall'Honduras di aver iniziato ad ammassare le proprie truppe alla frontiera.

    01/07/09

    Honduras: l'incubo dei desaparecidos

    Il golpe in Honduras assume ogni ora di più i connotati tristemente noti dei colpi di stato in America Latina negli anni '70. Dopo la destituzione di Zelaya e la nomina di un nuovo presidente, il nuovo regime honduregno ha preso possesso dei mezzi di comunicazione, che tentano di far passare quanto accaduto per un atto democratico di liberazione. Ciò non basta a frenare la protesta in piazza di ampie fasce della popolazione, ma nel frattempo sulle manifestazioni di dissenso incombe l'ombra di un altro incubo tristemente noto dei golpe sudamericani, quello dei desaparecidos.
    A farne le spese sarebbe stato il disegnatore Allan Mcdonald, il più famoso vignettista dell'Honduras nonchè sostenitore del presidente destituito Zelaya. Nella mancanza di notizie sulla sorte di Mcdonald l'unica notizia arriva da un'amica del disegnatore, che racconta in una mail:
    "Mi chiamo Verenice Bengtsson, sono una cittadina di nazionalità costaricana e hondurena, e risiedo in Svezia. Voglio denunciare e diffondere che oggi (lunedì 29 giugno ndr.) via chat alle 11 ora svedese, le 3 di notte in Honduras, Allan Mcdonald, il caricaturista più famoso del paese, che non ha nascosto il suo entusiasmo per il referendum costituzionale, è riuscito a mettersi in contatto con me per dirmi che è stato sequestrato e arrestato dalle forze armate. Con lui la figlia Abril, di 17 mesi".
    Per fortuna le pressioni internazionali hanno portato ad una rapida liberazione di Mcdonald e di sua figlia. "Vi ringraziamo per la solidarietà e il vostro lavoro. Allan e sua figlia sono stati liberati ieri, sani e salvi. Allan lo attribuisce alla immediata denuncia di tutti voi e alla risposta degli organismi come Amnesty Internacional e della Chiesa cattolica. Manteniamoci comunque in allerta, perché la situazione in Honduras è ogni giorno più grave" scrive ancora l'amica.
    Mcdonald non è stato però l'unico arrestato nella notte del golpe, come lui anche il Console della repubblica venezuelana e due donne, una spagnola e l'altra cilena, sono stati prelevati, seguendo una lista che evidentemente i golpisti avevano preparato da tempo. Di loro non si hanno più notizie. I desaparecidos sono già molti, difficile stilare un bilancio, tutto è ancora in divenire. "Sembra di essere tornati agli anni Ottanta, in pieno disprezzo dei diritti umani con Parlamento e Corte suprema di giustizia che confabulano sostenendo a vicenda il golpe, violentando i diritti fondamentali della maggiroanza del popolo. Purtroppo, questo golpe riflette la poca vocazione democratica della nostra classe dirigente", spiega Verenice.
    Intanto Zelaya ha annunciato l'imminente ritorno in Honduras, fissando la data per giovedì, ma dopo aver partecipato alla riunione straordinaria delle Nazioni Unite ha accettato di seguire le scadenze previste dall'assemblea, che hanno dato tempo fino a sabato all'Honduras per reintegrare Zelaya in carica. Il ritorno di Zelaya è a questo punto fissato per sabato, e ad accompagnarlo ci dovrebbe essere il presidente dell'Organizzazione degli Stati Americani Miguel Insulza.

    29/06/09

    Honduras: caos dopo il colpo di stato

    A più di un giorno dal colpo di stato che ha portato all'esautorazione e all'arresto del presidente dell'Honduras Manuel Zelaya si chiarisce il quadro politico del golpe ma non si calma la fibrillante situazione dello stato centroamericano.
    La Corte Suprema dell'Honduras ha dichiarato che l'esercito ha arrestato Zelaya seguendo proprio un ordine della Corte, che aveva accusato il presidente di aver violato la Costituzione. Questo chiarimento, teso a escludere che si sia trattato di un golpe militare, non ha però calmato le acque. Migliaia di simpatizzanti del capo dello Stato honduregno destituito si trovano tuttora davanti alla residenza presidenziale a Tegucigalpa, per protestare contro i militari golpisti. Tra i manifestanti spiccano contadini, studenti, operai, organizzazioni sociali ed indigeni, ovvero lo zoccolo duro dei sostenitori di Zelaya.
    Proprio ieri si sarebbe dovuto tenere in Honduras un referendum attraverso cui Zelaya intendeva modificare la Costituzione e rendere così possibile un'estensione del mandato presidenziale quadriennale e una sua rielezione. La Corte Suprema aveva espresso parere contrario al referendum, ma il presidente aveva proseguito per la sua strada seguendo l'esempio del leader venezuelano Hugo Chavez, che di Zelaya è stato alleato e ispiratore.
    E proprio Chavez ha espresso solidarietà ai sostenitori di Zelaya, promettendo aiuto "Se le oligarchie violano le regole del gioco come hanno fatto, il popolo ha diritto di resistere e combattere, e noi siamo con loro", e più tardi si è spinto ancora più in là minacciando di invadere l'Honduras se dovessero essere sferrati attacchi contro l'ambasciata venezuelana in Honduras.
    Il nuovo capo di stato dell'Honduras, il presidente del Congresso Roberto Micheletti, ha respinto le minacce di Chavez "Vedo con molta preoccupazione quello che dice Chavez senza riflettere, che non venga a minacciarci", ha ammonito Micheletti, aggiungendo di essere "totalmente sicuro del nostro esercito, che è pronto ad intervenire".
    Le notizie sono frammentarie, ma nella notte sono proseguiti gli scontri nonostante il coprifuoco, e da più fonti si parla dell'assassinio del leader popolare Cesar Ham, alleato di Zelaya, ucciso a quanto pare per aver resistito all'arresto.
    Oggi si riunisce in via straordinaria il consiglio di sicurezza dell'Onu, a seguito della preoccupazione espressa da Barack Obama e Hillary Clinton, mentre Zelaya, rifugiatosi in Nicaragua, incontrerà presto gli altri capi di stato dell'America Latina per cercare alleanze. Dall'Honduras si fa sapere che sono confermate le elezioni presidenziali per il 29 novembre.

    22/06/09

    L'Iran e il fattore Obama

    di Helene Cooper (New York Times)

    "Non vogliamo che il regime cada. Vogliamo che i nostri voti contino, perchè vogliamo riforme, vogliamo nuovi rapporti con il mondo" - Ali Reza, attore iraniano, a margine delle proteste a Teheran.
    C'è davvero un effetto Obama, per quando invisibile? Mentre a Teheran continuano le proteste, a Washington ci si interroga. Da un lato una manciata di sostenitori di Bush ritiene che i manifestanti iraniani siano stati galvanizzati dall'impegno dell'ex presidente Usa a favore del diffondersi della democrazia, seguendo l'esempio della nuova democrazia sciita in Iraq. Dall'altro lato, i sostenitori del presidente Obama ritengono che la semplice elezione del nuovo presidente americano abbia dato il via alla richiesta di cambiamento in Iran.
    Entrambe queste scuole di pensiero danno agli Usa un ruolo importante come epicentro di una vicenda in divenire, che per molti esperti non riguarda affatto l'America.
    "Dobbiamo essere umili e capire cosa sta succedendo in Iran" ha affermato Nicholas Burns, sottosegretario di Stato nell'amministrazione Bush "C'è stata una rabbia montante contro Ahmadinejad in questi anni".
    Ma c'è qualcos'altro: la voglia di molti iraniani di stabilire nuovi rapporti con il resto del mondo. Questo è risultato evidente nelle manifestazioni in favore di Mir Hussein Moussavi, sotto lo slogan "Un nuovo saluto al mondo".
    "Molti funzionari iraniani hanno capito che la politica di "Morte all'America" della rivoluzione del 1979 ormai è agli sgoccioli, e che l'Iran non potrà esprimere tutto il suo potenziale finchè rimarrà cotnrapposto agli Usa" spiega Karim Sadjapour, del Carnegie Endowment for International Peace. "Se gli estremisti al governo iraniano sono incapaci di avere relazioni amichevoli con un presidente americano che si chiama Barack Hussein Obama, che predica il rispetto reciproco e fa gli auguri per la festa del Nowruz, è chiaro che il problema è a Teheran, non a Washington."
    Durante gli anni di Bush, il regime Iraniano ha avuto gioco facile nel coalizzare il popolo contro un nemico comune, il presidente Bush, che definì l'Iran una "colonna dell'asse del male" in un discorso che alienò i consensi di molti riformisti a cui Washington stava strizzando l'occhio. Come risultato, gli iraniani misero da parte le critiche verso il proprio governo per unirsi contro il nemico comune. I riformisti iraniani chiesero agli Usa di smettere di sostenerli apertamente, perchè questo li screditava.
    Obama sembra aver preso sul serio quel consiglio - anche troppo, secondo alcuni Democratici. Le sue dichiarazioni sulla situazione in Iran sono state così distaccate e vaghe che i Repubblicani lo hanno subito accusato di non avere abbastanza a cuore la difesa della democrazia.
    D'altro canto, però Obama ha già messo in gioco un elemento che i riformisti possono usare nel loro dibattito interno, ovvero la consapevolezza che questo è il momento migliore per cercare nuove relazioni con l'America.[...]
    La risposta di Khamenei e Ahmadinejad alle aperture di Obama è stata il silenzio. Afshin Molavi, esperto della New America Foundation, afferma che la stragrande maggioranza degli iraniani vorrebbe avere migliori rapporti con gli Usa, e in particolare la classe media. Anche se Moussavi condivide il programma nucleare di Ahmadinejad, il ceto medio iraniano lo ritiene più adatto a stringere relazioni migliori con gli Stati Uniti.
    Nella sua campagna elettorale, Moussavi ha fatto sue molte tattiche di Obama. Ha promesso un ripristino dei rapporti con gli Usa, ha usato poster di lui e sua moglie e ha assunto giovani consiglieri che avevano studiato la campagna di Obama. Ha anche usato i social network di Internet, gli stessi mezzi che i sostenitori hanno usato dopo le elezioni per promuovere le loro proteste.

    Copyright 2009 The New York Times Company

    17/06/09

    Iran: e dopo le proteste?

    Mentre le rivolte e le proteste per i risultati elettorali non accennano a finire, i commentatori si interrogano sul futuro dell'Iran. Il movimento, perlopiù non organizzato, sviluppatosi in campagna elettorale attorno a Moussavi anzichè essere spazzato via dalla repressione del regime ha dimostrato una propria forza, con cui il governo di Teheran si trova a dover fare i conti. Si tratta della più grande manifestazione di protesta dai tempi della rivoluzione islamica, e per la prima volta il regime non riesce a contenere la fuoriuscita di notizie - anche grazie ai nuovi media e in particolare a Twitter. Poche speranze vengono riposte nella riconta dei voti, sia perchè il compito è affidato al Consiglio dei Guardini, nominati da Khamenei, sia perchè per votare bisognava crivere “4” sulla scheda, per Ahmadinejad “44”, e sarà quindi impossibile stabilire se le schede sono state truccate. Anche se la repressione dovesse fare il suo corso, quanto sta accadendo in questi giorni potrà minare le fondamenta del regime degli ayatollah, che negli ultimi quattro anni ha trovato un equilibrio perfetto con l'alleanza tra il presidente Ahmadinejad e la guida suprema Ali Khamenei. Per una guida alle cariche iraniane suggerisco l'esaustivo articolo de La stampa.
    Anche se Khamenei ha un potere pressochè assoluto sulle forze armate, sui media e sulla Giustizia, deve fare i conti con un (unico) contrappeso, rappresentato dall'Assemblea degli Esperti, un organismo di 86 religiosi che hanno il potere di nominare la Guida Suprema e anche quello di revocare il mandato, che altrimenti è a vita. Capo degli Esperti è l'ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, rivale storico di Khamenei. Rafsanjani contese a Khamenei il titolo di Guida Suprema alla morte di Khomeini, e durante i due mandati da presidente negli anni '90 provò a contrastare il conservatorismo radicale della Guida Suprema tentando un blando piano riformista. Nel 2005 Rafsanjani venne sconfitto da Ahmadinejad e anche in quel caso si parlò di brogli. Anche se sembra difficile che il Consiglio possa revocare il mandato di Khamenei, in molti fanno notare che sotto le battaglie politiche ci sono molti interessi economici (Khamenei e Rafsanjani sono tra gli uomini più ricchi dell'Iran), e questo potrebbe smuovere gli ayatollah più della religione e della politica, visto che l'intransigenza di Khamanei e Ahmadinejad sta creando grossi danni negli affari iraniani con gli investitori stranieri.
    Quello in atto dunque sarebbe uno scontro di potere tra due caste, quella dei sacerdoti e quella dei militari, ed in gioco ci sarebbe la natura stessa della dittatura. Da una parte i "riformisti" Rafsanjani, Khatami e Moussavi; dall'altra, la Guida Suprema Khamenei, che avrebbe deciso di servirsi di Ahmadinejad e delle forze militari e di sicurezza a lui fedeli, per liberarsi degli avversari all'interno del clero sciita.
    Il fatto che un esponente di spicco come Ali Larijiani, presidente del Parlamento iraniano, nonché ex negoziatore nucleare e alleato di Ahmadinejad, abbia pubblicamente preso le distanze da Khamenei fa pensare che si stia candidando per un eventuale successione come Guida Suprema.

    14/06/09

    Iran: Moussavi è libero e chiede nuove elezioni

    Si sono rivelate infondate le voci che volevano Mir Hossein Moussavi agli arresti dopo la fine delle elezioni. Il principale oppositore di Ahmadinejad è libero, al contrario di molti esponenti politici vicini all'ex presidente Khatami, arrestati oggi dall'esercito, così come quasi duecento manifestanti scesi in piazza in questi giorni.
    Moussavi ha incitato i suoi sostenitori a proseguire una "civile" protesta e ha intimato alla polizia di fermare le violenze contro i manifestanti. Moussavi ha poi annunciato di aver presentato al Consiglio dei guardiani una richiesta per annullare i risultati dell’elezione, a causa dei brogli. Moussavi ha affermato che solo l'annullamento delle elezioni potrà ristabilire la fiducia del popolo nei confronti del governo.
    Intanto domenica è arrivata la prima presa di posizione ufficiale degli USA nei confronti delle elezioni iraniane. Il vicepresidente Joe Biden, intervistato a "Meet the press", ha affermato di avere una "spaventosa mole di dubbi". "C'e' una spaventosa mole di domande in sospeso riguardo al modo con cui sono state gestire queste elezioni" ha detto Biden alla Nbc, aggiungendo però che gli Stati Uniti e gli altri paesi hanno bisogno di più tempo per analizzare i risultati e dare un giudizio definitivo.

    13/06/09

    Iran nel caos: Moussavi arrestato?

    Dopo la proclamazione della vittoria di Ahmadinejad nelle elezioni iraniane le strade di Teheran si sono riempite di manifestanti, sostenitori di Moussavi e convinti che l'attuale presidente abbia alterato il risultato elettorale con l'aiuto dei pasdaran e con il tacito consenso dell'ayatollah Khamenei.
    Poco dopo il discorso con cui Ahmadinejad ha ufficializzato la propria rielezioni - con il 62,23% dei voti contro il 33,75 di Moussavi - le proteste nelle strade, sempre più violente, sono state sedate nel sangue dall'intervento della polizia.
    La vittoria di Ahmadinejad, scrive il "New York Times", è stata uno shock per l'opposizione, che aveva sperato in un risultato ben diverso dopo che i sondaggi davano a Moussavi un ampio margine di vantaggio.
    Al momento la situazione nella capitale iraniana è confusa sotto il punto di vista delle comunicazioni: i collegamenti internet sono rallentati e quasi bloccati, i cellulari sono inutilizzabili e le notizie che filtrano all'esterno, anche da parte degli inviati stranieri, sono pochissime. Tra le notizie tutte da verificare c'è quella, rilanciata dalla stampa stanutitense, secondo cui Moussavi sarebbe stato messo agli arresti, presumibilmente con l'accusa di aver fomentato gli scontri.
    Moussavi, prima del blackout delle comunicazioni, aveva rivolto un appello per evitare che l'Iran cada nella tirannide. Un appello che all'occidente può sembrare paradossale, visto che l'ex Persia è tutt'altro che una democrazia, ma che sta a significare che in queste ore stiamo probabilmente assistendo ad un cambiamento epocale nel livello di dittatura dell'Iran, che fino ad ora è stata una repubblica islamica in cui la figura dell'ayatollah è al di sopra delle leggi ed ha diritto di veto su ogni decisione del governo, ma la rappresentatività del popolo è sempre stata riconosciuta tramite elezioni, per quanto "pilotate" (i candidati vengono selezionati in base all'aderenza ai principi della repubblica islamica).

    12/06/09

    Iran: è già scontro sui risultati

    http://markhalperin.files.wordpress.com/2009/06/mousaviahmadinejad.jpg
    Neanche il tempo di chiudere i seggi (con ore di ritardo a causa della folla di elettori presentatasi alle urne) e già in Iran si litiga su chi ha vinto le presidenziali.
    Lo sfidante Mirhossein Mousavi ha indetto una conferenza stampa poco dopo la chiusura delle urne annunciando di essere il "vincitore certo" delle elezioni con circa il 65% dei voti, e ha anche denunciato irregolarità nelle operazioni, con i suoi rappresentanti tenuti fuori dai seggi. Mentre dagli Usa la Casa Bianca diramava una nota in cui Barack Obama esprimeva speranza di un cambiamento in Iran, l'agenzia stampa iraniana Irna ha diramato un comunicato in cui si dichiara che, con il 20% di schede scrutinate, Ahmadinejad ha il 69% dei voti, contro il 28% di Mousavi. Questo dato, anche se ufficiale, non può non destare sospetti, non solo perchè è molto diverso dalle aspettative di voto (l'alta affluenza è vista unanimemente come favorevole allo sfidante) ma soprattutto perchè le prime sezioni ad essere scrutinate sono state quelle delle zone metropolitane, in cui tradizionalmente Ahmadinejad è meno forte.

    11/06/09

    Iran alle urne

    Si è chiusa una campagna elettorale tra le più dure della breve storia della repubblica islamica dell'Iran. Attacchi duri fra i candidati, cui si è aggiunta una inedita polemica fra due colonne storiche del regime: l'ex presidente Akbar Rafsanjani e l'ayatollah Ali Khamenei. Le piazze sono invase da sostenitori di Ahmadinejad, che corre per un secondo mandato, e del suo piu' temibile avversario, il conservatore moderato Mir Hossein Mussavi.
    Finora tutti i presidenti iraniani presentatisi per un secondo mandato sono stati rieletti, ma Ahmadinejad rischia seriamente di interrompere la tradizione. Può ancora contare sui suoi fedelissimi - essenzialmente le vaste popolazioni delle zone rurali - ma deve fare i conti con una montante opposizione da parte dei giovani, degli studenti universitari e delle popolazioni delle zone metropolitane. Gli oppositori del regime, finora numerosi ma disorganizzati, si sono coalizzati attorno alla figura di Mir-Hussein Moussavi (foto), 67 anni, conservatore moderato e ultimo primo ministro della repubblica islamica prima che la carica venisse abolita nel 1989. E proprio dal 1989 Moussavi è assente dalla scena politica, anche se è stato l'artefice della prima elezione nel 1997 del suo braccio destro Mohammad Khatami. Nel 2005 rifiutò di presentarsi contro Ahmadinejad, ma quest'anno è riuscito a mettere in piedi un'organizzazione "dal basso" con un programma riformista e "di sinistra" (ma comunque all'interno della formula di stato religioso). Ha schierato in campo, fenomeno mai visto prima in Iran, sua moglie Zahra Rahnavard, artista capace di diventare l'unica donna rettore universitario del Paese. Tanta gente è scesa in piazza per sostenerlo, facendo parlare alcuni di una sorta di 'effetto Obama' in Iran.
    Circa 45mila urne verranno aperte il 12 giugno ai 46 milioni di aventi diritto al voto, dalle otto del mattino fino alle sei di questa sera. Se nessuno dei quattro candidati otterrà al primo turno la maggioranza assoluta dei voti, si terrà il ballottaggio tra i primi due candidati il 19 giugno prossimo.
    Un altro candidato con qualche chance è Moshen Rezaei, militarefino al 1997 e stretto collaboratore dell'ayatollah Khomeini, che rappresenta l'opposizione "di destra" a Ahmadinejad, una destra pragmatica che vorrebbe eliminare l'attuale presidente reo, con le sue esternazioni in politica estera, di allontanare investitori e businnes. Il quarto tra i maggiori candidati è Mehdi Karroubi, altro riformista, arrivato terzo alle elezioni di 4 anni fa ma ora schiacciato dalla figura di Moussavi. Proprio la contemporanea candidatura di due importanti esponenti potrebbe però spaccare il fronte riformista favorendo Ahmadinejad. E intanto il capo dei pasdaran, i guardiani della rivoluzione vicini al presidente, ha affermato che "Sara' stroncato sul nascere ogni tentativo di provocare in Iran una rivoluzione di velluto".

    09/06/09

    Libano: maggioranza assoluta ai filo-occidentali

    Al termine dello spoglio per le elezioni in Libano, i risultati ufficiali confermano la netta vittoria del blocco filo-occidentale ed anti-siriano capeggiato da Saad Hariri, che molto probabilmente diventerà il prossimo premier.
    I risultati mostrano che la coalizione a guida sunnita capeggiata da Saad Hariri ha ottenuto 71 seggi su 128 in parlamento contro i 57 dell'Alleanza di Hezbollah. Baroud si e' detto soddisfatto riguardo allo svolgimento delle consultazioni nonostante alcuni problemi riscontrati nell'organizzazione. Numerose sono state anche le irregolarità riscontrate durante le elezioni, compreso l'acquisto di voti e la violazione del silenzio stampa da parte dei media. Lo ha denunciato la Lebanese Transparency Association (Lta) che ha monitorato le elezioni con 2500 osservatori in tutto il Paese. Dal rapporto finale emerge che il 21% degli elettori ha dichiarato di aver subito pressioni nella scelta del voto da parte di rappresentati e volontari dei partiti presenti ai seggi. Inoltre sono stati numerosi i casi di aggressioni, verbali e fisiche, scoppiate tra elettori, membri dei diversi partiti ed esercito.
    Il risultato del voto è un duro colpo per Siria e Iran, che sostengono Hezbollah, e una buona notizia per Usa, Arabia Saudita ed Egitto, che appoggiano invece il blocco "14 Marzo", che prende il suo nome dall'enorme manifestazione del 2005 contro la presenza militare siriana.
    ''La nostra speranza e' che il prossimo governo continui sulla strada delle costruzione di un Libano sovrano, indipendente e stabile'' ha commentato il presidente Usa Barack Obama ''C'è un solo standard da seguire per coloro che detengono il potere. Bisogna governare con il consenso e non con la coercizione''.
    Il 39enne Hariri, figlio dell'ex premier Rafik ucciso in un attentato nel 2005 ha dichiarato subito dopo il voto "Non ci sono né vincitori, né vinti. Ha vinto il Libano" e si è detto pronto al dialogo con hezbollah, i grandi sconfitti di queste elezioni, anche a causa della sconfitta del cristiano Michel Aoun, loro alleato, in due importanti circoscrizioni elettorali.
    Pur ammettendo la sconfitta elettorale della sua coalizione, Hezbollah difende la resistenza libanese, definendola “una scelta popolare” che ha trovato riprova nelle urne.
    “Accettiamo i risultati ufficiali con fair-play e in maniera democratica”, ha detto il segretario generale del movimento sciita, Hassan Nasrallah, precisando che "la scelta delle resistenza non è la scelta di un gruppo armato, ma una scelta popolare confermata dal voto".

    08/06/09

    Elezioni europee: i risultati

    Austria
    Ovp (Partito popolare): 29,7% - 6 seggi
    Spo (Socialdemocratici): 23,8% - 5 seggi
    Martin (Euroscettici): 17,9% - 3 seggi
    Fpo Partito della libertà (Nazionalisti): 13,1% - 2 seggi
    Ovp: 9,5% - 1 seggio

    Belgio
    CVD (Democratici cristiani fiamminghi): 15,13%
    VLD (Democratici liberali fiamminghi): 13,02%
    VB (Interesse fiammingo): 10,28
    PS (Partito socialista vallone): 10,19%
    MR (Movimento riformista vallone): 9,14%
    SPA/Spirit (Alternativa sociale fiamminga): 8,53%
    Ecolo (Verdi valloni): 8,1%
    NVA (Nuova alleanza fiamminga): 6,4%

    Bulgaria
    GERB (Popolari): 24,5% - 5 seggi
    BSP (Socialisti): 18,6% - 4 seggi
    DPS (Diritti e libertà): 14,2 - 2 seggi
    NUA (Euroscettici): 11,3% - 2 seggi
    NDSV (Movimento nazionale Simeone II): 8% - 2 seggi
    SDS-DSB (Riformisti): 8% - 1 seggio

    Repubblica Ceca
    ODS (Partito Democratico civico): 31,5% - 9 seggi
    CSSD (Socialisti): 22,4% - 7 seggi
    KSCM (Comunisti): 14,2% - 4 seggi
    KDU-CSL (Democratici cristiani): 7,6% - 2 seggi

    Danimarca
    A (Socialdemocratici): 20,9% - 4 seggi
    V (Sinista liberale): 19,6% - 3 seggi
    F (Socialisti popolari): 15,4% - 2 seggi
    O (Partito del popolo): 14,8% - 2 seggi
    C (Conservatori): 12,3% - 1 seggio
    N (Euroscettici): 7% - 1 seggio

    Finlandia
    Kok (Popolari): 23,2% - 3 seggi
    SK (Liberaldemocratici): 19% - 2 seggi
    Sdp (Socialdemocratici): 17,5% - 2 seggi
    PS-KD (Popolari): 14% - 2 seggi
    Vhr (Verdi): 12,4% -2 seggi
    SFP (Popolari): 6,1% - 1 seggio

    Germania
    CDU (Cristiano democratici): 30,7% - 34 seggi
    SPD (Socialisti): 20,8% - 23 seggi
    Grune (Verdi): 12,1% - 14 seggi
    FPD (Liberali): 11% - 12 seggi
    Die linke (Comunisti): 7,5% - 8 seggi
    CSU (Cristiano sociali): 7,2% - 8 seggi

    Estonia
    KE (Popolari): 26,1% - 2 seggi
    I. Tarand (Indipendenti di sinistra): 25,8% - 1 seggio
    ER (Riformatori): 15,3% - 1 seggio
    IRL (Nazionalisti): 12,2% - 1 seggio
    SDE (Socialdemocratici): 8,7% - 1 seggio

    Irlanda
    Fin Gael (Democratici): 29,1% - 4 seggi
    Fianna Fail (Popolari): 24,1% - 3 seggi
    Laburisti: 13,9% - 2 seggi
    Indipendentisti: 11,4% - 1 seggio
    Sinn Fein (Sinistra): 11,2% - 1 seggio

    Grecia
    Pasok (Socialisti): 36,2% - 9 seggi
    ND (Democratici): 34% - 7 seggi
    KKE (Comunisti): 7,8%- 3 seggi
    LAOS (Popolari ortodossi): 7% - 2 seggi
    OP (Verdi): 3,5% - 1 seggio

    Spagna
    PP (Popolari): 42,2% - 23 seggi
    Psoe (Socialisti): 38,5% - 21 seggi
    Cpe (Europeisti liberaldemocratici): 5,1% - 2 seggi
    IU-ICV-EUIA-BA (Verdi): 3,7% - 2 seggi
    UPD (Democratici): 2,9% - 1 seggio

    Francia
    UMP (Popolari): 28% - 30 seggi
    PSE (Socialisti): 16,8% - 14 seggi
    Europe Ecologie (Verdi): 16,2% - 14 seggi
    MoDem (Democratici): 8,5% - 6 seggi
    Fronte Nazionale: 6,5% - 3 seggi
    FG (Comunisti): 6,3% - 4 seggi

    Italia
    Popolo della libertà: 35,3% - 29 seggi
    Partito Democratico: 26,1% - 22 seggi
    Lega Nord: 10,2% - 9 seggi
    Italia dei valori: 8% - 7 seggi
    Unione di centro: 6,5% - 5 seggi

    Cipro
    Disy (Democratici): 35,7% - 2 seggi
    Akel (Progressisti): 34,9% - 2 seggi
    DiKo (Democratici): 12,3% - 1 seggio
    Edek (Socialdemocratici): 9,9% - 1 seggio

    Lettonia
    PS (Nazionalisti): 24,3% - 2 seggi
    SC (Centristi): 19,5% - 2 seggi
    Pctvi (Verdi): 9,6% - 1 seggio
    Lpp/Lc (Democratici e liberali): 7,5% - 1 seggio
    TB/LNKK (Euroscettici): 7,5% - 1 seggio
    JI (Popolari): 6,7% - 1 seggio

    Lituania
    Ts-Lkd (Conservatori): 26,8% - 4 seggi
    Lspd (Socialdemocratici): 18,6% - 3 seggi
    TT (Nazionalisti): 12,2% - 2 seggi
    DP (Laburisti): 8,8% - 1 seggio
    LLRA (Partito della minoranza polacca): 8,5% - 1 seggio
    LRLS (Liberali): 7,3% - 1 seggio

    Lussemburgo
    CSV (Cristiano sociali): 31,3% -3 seggi
    Lsap (Socialisti): 19,4% - 1 seggio
    DP (Democratici): 18,7% - 1 seggio
    Dei Greng (Verdi): 16,8% - 1 seggio

    Ungheria
    Fidesz-Kdnp (Popolari): 56,4% - 14 seggi
    Mszp (Socialisti): 17,4% - 4 seggi
    Jobbink (Nazionalisti): 14,8% - 3 seggi
    Mdf (Popolari): 5,3% - 1 seggio

    Malta
    PL-Mlp (Laburisti): 55% - 3 seggi
    PN (Popolari): 40,5% - 2 seggi

    Olanda
    Cda (Cristiano democratici): 19,9% - 5 seggi
    Pvv (Nazionalisti): 17% - 4 seggi
    Pvda (Socialisti): 12,1% - 3 seggi
    Vvd (Nazionalisti): 11,4% - 3 seggi
    Democratici 66: 11,3% - 3 seggi
    Groenlinks (Verdi): 8,9% - 3 seggi
    SP (Socialisti): 7,1% - 2 seggi
    Cu-Sgp (Liberaldemocratici): 6,9% - 2 seggi

    Polonia
    PO (Popolari): 44,4% - 25 seggi
    PIS (Nazionalisti): 27,4% - 15 seggi
    SLD - Up (Socialisti): 12,3% - 7 seggi
    Psl (Popolari): 7% - 3 seggi

    Portogallo
    PPD/PSD (Popolari e socialdemocratici): 31,7% - 8 seggi
    PS (Socialisti): 26,6% - 7 seggi
    Be (Comunisti): 10,7% - 3 seggi
    CDU (Sinistra): 10,7% - 2 seggi
    CDS-PP (Popolari): 8,4% - 2 seggi

    Regno Unito
    Conservatori: 27% - 25 seggi
    Ukip (Indipendentisti): 16,1% - 13 seggi
    Laburisti: 15,3% - 13 seggi
    Liberaldemocratici: 13,4% - 11 seggi
    Verdi: 8,4% - 2 seggi
    Bnp (Nazionalisti): 6% - 2 seggi
    Snp (Nazionalisti scozzesi): 2% - 2 seggi
    EngDem: 1,8% - 1 seggio
    No2Eu (Euroscettici): 1% - 1 seggio
    PLAID: 0,8% - 1 seggio

    Romania
    Psd-Pc (Socialisti): 30,8% - 11 seggi
    Pd-L (Popolari): 29,85 - 10 seggi
    Pnl (Liberaldemocratici): 14,5% - 5 seggi
    Udmr (Popolari): 9,1% - 3 seggi
    Prm (Nazionalisti): 8,7% - 3 seggi
    Lista Elena Basescu: 4,2% - 1 seggio

    Slovacchia
    Smer (Socialisti): 32% - 5 seggi
    SDKU (Popolari): 17% - 2 seggi
    SMK - MPK (Popolari): 11,3% - 2 seggi
    KDH (Popolari) : 11% - 2 seggi
    HZDS (Liberaldemocratici): 9% - 1 seggio
    Sns (Popolari): 5,6% - 1 seggio

    Slovenia
    SDS (Popolari): 26,9% - 2 seggi
    SD (Socialdemocratici): 18,5% - 2 seggi
    N.Si (Nazionalisti): 16,3% - 1 seggio
    Lds (Liberaldemocratici): 11,5% - 1 seggio
    Zares (Nazionalisti): 9,8% - 1 seggio

    Svezia
    Sap (Socialisti): 24,6% - 5 seggi
    M (Popolari): 18,8% - 4 seggi
    FP (Liberaldemocratici): 13,6% - 3 seggi
    MP (Verdi): 10,8% - 2 seggi
    Partito pirata: 7,1% - 1 seggio
    V (Socialisti): 5,6% - 1 seggio
    C (Liberaldemocratici): 5,5% - 1 seggio
    Kd (Cristiano democratici): 4,7% - 1 seggio

    03/06/09

    Israele accusa: Venezuela e Bolivia alleati dell'Iran

    Il Venezuela e la Bolivia starebbero rifornendo l’Iran di uranio per il suo programma nucleare, secondo quanto afferma un rapporto segreto del governo israeliano diffuso dalla Associated Press.
    La denuncia, se confermata, metterebbe in luce un quadro di alleanze molto complesso e radicato, arrivando a ipotizzare una rete di stati guidati da ideologie diverse ma unite dall'odio per l'imperialismo americano. Ci sono però molti dubbi sulla fondatezza di queste informazioni, a partire dal fatto che il rapporto è stato commissionato dall'attuale governo israeliano, e per la precisione dal ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, con lo specifico scopo di rendere difficoltose le trattative diplomatiche aperte dalla nuova amministrazione Usa con Teheran e con Caracas.
    L'alleanza tra i tre paesi avrebbe uno scopo preciso, a detta di Israele Nel rapporto si riferisce di "informazioni in base alle quali il Venezuela fornisce uranio all'Iran", nel quadro della politica di forte avvicinamento tra Caracas e Teheran promossa dal presidente Chavez. Una politica per cui Chavez starebbe "contribuendo a coinvolgere la Bolivia, anch'essa come fornitrice di uranio".
    Non solo, ma l'alleanza arriverebbe anche in Libano. Chavez starebbe infatti appoggiando il movimento libanese Hezbollah che, da anni, è presente con sue cellule in tutto il Sud America. In base alle informazioni raccolte dal ministero degli Esteri di Israele la cooperazione è cresciuta negli ultimi mesi, ma non è chiaro se l’uranio provenga dalle riserve dei due paesi o sia frutto di una triangolazione.
    L'opposizione venezuelana supporta le tesi israeliane, sostenendo che Chavez avrebbe affidato a consiglieri mediorientali – forse iraniani e libanesi – il compito di addestrare una milizia speciale segreta. Secondo il documento inoltre, Caracas starebbe aiutando l'Iran a eludere le sanzioni imposte dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu. "Le relazioni fra Venezuela e Iran sono particolarmente strette" dice ancora la documentazione israeliana che continua: "Caracas aiuta Teheran a schivare le sanzioni concedendo salvacondotti di viaggio a cittadini iraniani, permettendo loro di spostarsi con la più totale impunità in tutti gli Stati dell'America Latina". Il rapporto afferma che appoggiando l’Iran il presidente venezuelano Hugo Chavez sta cercando di indebolire la politica del presidente degli Stati Uniti Barack Obama, il quale vorrebbe migliorare diplomaticamente i rapporti con Teheran.
    Il ministro degli esteri boliviano Luis Alberto Echazu ha smentito le accuse contenute nel rapporto del governo israeliano, affermando che nel Paese non esistono giacimenti di uranio e che quindi tantomeno può esportarlo. Echazù è stato anche più categorico sottolineando che la Bolivia non ha mai prodotto, e per il momento non ha intenzione di produrre uranio.
    Nessuna dichiarazione è invece pervenuta dal governo venezuelano.

    27/05/09

    USA - Una ispanica alla Corte Suprema

    Dopo settimane di attesa per la nomina del nuovo giudice della Corte Suprema, il presidente Obama ha mantenuto la promessa di una scelta all'insegna della novità, nominando la 54enne Sonia Sotomayor, seconda donna e primo giudice ispanico dell'Alta Corte.
    La nomina proposta da Obama deve ora essere approvata in Senato, dove si preannuncia battaglia tra repubblicani e democratici, anche se questi ultimi hanno i numeri per aggirare qualunque manovra ostruzionistica. Anche se non dovrebbero esserci impedimenti (scandali, dichiarazioni fuori luogo o comportamenti scorretti) nel passato della Sotomayor tali da pregiudicare la conferma, storicamente le sedute confirmative per la Corte Suprema sono terreno di scontro anche duro, e le sorprese sono sempre dietro l'angolo. La Sotomayor, che è stata per oltre un decennio giudice presso la corte d’appello di New York, dovrebbe rimpiazzare David H. Souter, giudice in procinto di andare in pensione ed esponente dell'ala "liberal" come anche la Sotomayor. Il "New York Times" sottolinea come la storia personale della Sotomayor rispecchi molto quella di Obama e la sua nomina rappresenta per il presidente americano un tentativo di ampliare il background culturale dei giudici dell’Alta corte. Orfana del padre all’età di 9 anni, la Sotomayor è stata cresciuta dalla madre, che con grandi sacrifici è riuscita ad assicurare a lei e a suo fratello un’istruzione.
    Fra le sue sentenze più memorabili, quella con cui sostenne i diritti dei giocatori di baseball contro i proprietari delle grandi squadre; gli atleti erano in sciopero e avevano fatto saltare il campionato. Come giudice d'appello, si schierò dalla parte del comune di New Haven in Connecticut in una causa per discriminazione: un gruppo di vigili del fuoco bianchi aveva fatto ricorso dopo che il comune aveva annullato un concorso dove le minoranze non avevano ottenuto punteggi abbastanza alti. Il caso ora si trova di fronte alla Corte suprema. All'udienza di conferma in Senato, oltre dieci anni fa, Sotomayor disse "Non penso sia lecito piegare la Costituzione, in qualunque circostanza. Dice quello che dice. Dovremmo renderle onore". Negli anni Ottanta, quando lavorava presso lo studio legale Pavia and Harcourt di New York, la Sotomayor difese la Fiat.
    La Corte Suprema è l'unico tribunale specificamente previsto dalla Costituzione degli Stati Uniti, e si occupa di original jurisdiction, ovvero giudicando in prima e unica istanza controversie specificamente indicate dalla legge, e di appellate jurisdiction, ovvero di impugnazioni di una sentenza emessa da una corte inferiore, con i limiti e le eccezioni previste dal Congresso. Nella giurisdizione d'appello la Corte può decidere su richiesta di un giudice federale che, chiamato ad applicare una legge, l'abbia considerata in contrasto con la Costituzione, con una legge federale od un trattato stipulato dalla Federazione; da questo punto di vista la Corte Suprema è il giudice della costituzionalità delle leggi e del rispetto della gerarchia delle fonti.

    26/05/09

    Corea del Nord: si prepara la successione

    Il Wall Street Journal riporta che, secondo fondi dell'intelligence americana, il leader nordcoreano Kim Jong Il ha iniziato una fase di transizione per cedere il potere, dopo l'infarto che lo ha colpito l'anno scorso.
    Sarebbe proprio questa situazione incerta a Pyongyang ad aver provocato una maggiore aggressività della Corea del Nord in politica estera, dopo le aperture dello scorso anno. Il paese ha infatti ritirato l'impegno a mettere fine al programma nucleare di arricchimento dell'uranio e lo scorso aprile ha lanciato un nuovo tipo di missile (l'esperimento è poi fallito), che secondo le intelligence occidentali sarebbe sintomo di un progetto che porterà alla costruzione di missili in grado di supportare e trasportare testate nucleari. Nei prossimi mesi Pyongyang dovrebbe effettuare un nuovo test.
    Da quanto è salito al potere nel 1994, succedendo al padre Kim Il Sung, Kim Jong Il non ha mai cambiato linea politica in modo così ripetuto, e a Washington è opinione condivisa che il ritorno alla linea dura sia causato da giochi di potere dell'elite nordcoreana in vista della successione. Nonostante il dittatore abbia chiaramente indicato il suo figlio più piccolo Kim Jong Un come suo erede, la linea di successione non è così scontata, così come non è scontato che sia proprio Kim Jong Il a detenere le leve del potere in questi mesi.
    Uno dei segnali di questa incertezza è dato dalla rapida ascesa politica di Jang Seong Taek, marito della sorella minore del dittatore, che lo scorso mese è salito ai vertici della Difesa Nazionale, la più potente istituzione nordcoreana, formata dall'esercito e dal Partito dei Lavoratori, e che finora è sempre stata guidata da Kim Jong Il. Se la salute del dittatore dovesse peggiorare in tempi brevi, Taek potrebbe diventare una sorta di reggente in attesa che il 26 enne Kim Jong Un prenda il potere. Questo ruolo sarebbe stato assegnato a Taek dallo stesso dittatore, che finora non aveva mai voluto nessuno a contendergli il potere.
    Kim Jong Il avrebbe indicato come successore il figlio minore Kim Jong Un perchè lo vede più in linea con i suoi valori e le sue idee, nonostante il giovane abbia un'educazione europea (ha studiato in Svizzera) e sia fan di popstar occidentali. Oltretutto, è figlio della terza moglie di Kim Jong Il, morta in un incidente stradale nel 2004 e ritenuta la favorita tra le mogli del dittatore.
    Il figlio maggiore del dittatore, Kim Jong Nam, è uscito dalle grazie del padre nel 2001, quando venne fermato e arrestato in Giappone con un falso passaporto dominicano con cui si era introdotto nel paese per visitare Tokyo Disneyland. Il secondo figlio, Kim Young Chol, è invece ritenuto troppo fragile e senza la statura di leader.

    Fonte: Wall Street Journal

    25/05/09

    USA: Obama e la grana Guantanamo

    Trovare una sistemazione per i detenuti più pericolosi del carcere di Guantanamo "sta diventando uno dei nostri problemi piu' grandi". Lo ha ammesso il presidente Barack Obama nel corso di un'intervista alla tv C-Span, in cui ha parlato dell'esigenza di trovare una soluzione "ineccepibile dal punto di vista legale e istituzionale" per processare i detenuti. "Non e' semplice", ha spiegato il presidente americano che non ha risparmiato critiche all'amministrazione Bush che, sull'onda del post 11 settembre, quando "la popolazione era impaurita", affrontò la situazione con "decisioni inadeguate".
    La paura sembra però non essere ancora passata, visto che Obama ha subito dal Senato (in cui pure ha la maggioranza assoluta) la prima sconfitta del suo mandato. Il presidente aveva infatti chiesto alla camera alta del Congresso i fondi per chiudere il carcere di Guantanamo, ma con una votazione a sorpresa il Senato glieli ha negati, con 90 voti contrari e 6 favorevoli.
    Il dato politico è clamoroso per il contesto in cui è maturato: poche ore prima Obama aveva tenuto un ispirato discorso sulla sicurezza nazionale, spinto dal partito che voleva dare ai propri senatori una adeguata copertura contro le prevedibili proteste dei repubblicani. Dopo Obama ha però parlato l'ex vicepresidente Dick Cheney, che ha fatto appello a tutte le paure degli americani del dopo 11 settembre, come se non fossero passati 8 anni dagli attentati di Al Qaeda. Chney ha accusato senza mezzi termini Obama di voler indebolire l'America, e ha paventato la possibilità di nuovi attentati a breve, la cui colpa, è la logica conclusione del suo discorso, sarebbe tutta dell'attuale presidente. In molti hanno imputato al discorso di Cheney il clamoroso dietrofront di molti senatori democratici, mentre i repubblicani hanno votato compatti.
    La bocciatura non è definitiva, e Obama è già tornato alla carica, deciso a mantenere la promessa ma anche a fare tesoro degli errori commessi in questi mesi. L'aver inserito la chiusura di "Gitmo" tra le priorità dei suoi primi mesi di amministrazione l'ha portato a cambiare più volte posizione, annunciando prima di voler trasferire i detenuti nelle carceri federali salvo poi fare marcia indietro chiedendo agli alleati di farsi carico di alcuni di questi prigionieri.
    La ripartenza dei processi ai detenuti dovrebbe facilitare le cose, ma Obama adesso sa che non potrà presentare un altro progetto di chiusura se prima non avrà chiarito al Senato il costo totale dell'operazione, la nuova collocazione dei prigionieri attualmente a Guantanamo e la destinazione dei futuri prigionieri pericolosi. Per fare questo, nonostante la maggioranza al Senato, Obama potrebbe aver bisogno di cercare un accordo bipartisan, mettendo alla prova quell'intento unitario portato avanti in campagna elettorale. Non sono pochi i repubblicani che potrebbero appoggiare una chiusura di Guantanamo, a partire da John McCain, ma ci vorrà un progetto più dettagliato per convincerli.
    "A Guantanamo abbiamo molte persone che avrebbero dovuto essere processate prima, ma non è stato fatto", ha spiegato Obama alla C-Span "in alcuni casi, le prove contro di loro sono state compromesse". Alcuni detenuti "potrebbero essere pericolosi, e in questi casi non possiamo rilasciarli, perciò trovare una soluzione su questa faccenda penso stia diventando uno dei nostri problemi piu' grandi". I detenuti dovranno essere giudicati "da commissioni militari americane e Corti civili" con "un struttura rispettosa dello stato di diritto".

    21/05/09

    Turchia, la nuova meta di Al Sadr

    Non si vedeva in pubblico dal 2007 Muqtada al Sadr, il leader sciita iracheno che nel 2003 con le sue milizie organizzò la più ferrea resistenza alle truppe americane e, in seguito, all'insediamento del nuovo governo.
    Come si ricorderà, fu proprio la chiusura del suo giornale da parte dell'amministrazione provvisoria americana a causare la più grande rivolta popolare in Iraq dopo la fine del regime di Saddam Hussein.
    Dopo una breve alleanza con il governo, nel 2007 si è autoesiliato in Iran, dove a quanto risulta dai rapporti dell'intelligence americana, avrebbe studiato per diventare ayatollah. Ora, dopo aver rifuggito le apparizioni pubbliche per due anni, al Sadr è ricomparso i primi di maggio ad Ankara, dove è stato protagonista di due incontri ufficiali con il presidente Gul e con il premier Erdogan.
    Cosa ha spinto al Sadr in Turchia? Dopo l'incontro non sono stati rilasciati commenti nè comunicati ufficiali (ma la visita, come si vede dalla foto, è stata tutt'altro che segreta). Secondo il quotidiano iracheno Azzaman, che riporta indiscrezioni anonime, argomento dei colloqui fra il leader sciita iracheno e i vertici turchi sarebbero stati la situazione della sicurezza in Iraq e l’evolversi dei rapporti fra i due Paesi.
    Secondo un esponente di spicco del movimento di Sadr, Haidar al-Turfi, Muqtada sarebbe andato in Turchia da Tehran per incontrare una delegazione proveniente da Najaf dove il movimento ha il suo quartier generale. Argomento dei colloqui sarebbe stato il futuro dell’Iraq. Non è escluso, e questa è l'ipotesi più interessante, che al Sadr si stia preparando per le elezioni politiche che si terranno in Iraq tra la fine di quest'anno e l'inizio del 2010, e che quindi abbia iniziato ad allargare la propria base e a farsi di nuovo vedere in pubblico evitando di legare troppo la propria immagine a quella dell'Iran. Il movimento sadrista in passato era legato alla United Iraqi Alliance (guidata dall'attuale premier al Maliki) e ora starebbe cercando nuove alleanze, ma non punterebbe a strutturarsi come partito per non alienarsi il sostegno popolare.
    La visita di Sadr in Turchia, però, ha avuto anche un altro risvolto, legato alla sicurezza e all'economia della regione del Kurdistan iracheno. Sadr si sarebbe offerto come mediatore per la delicata situazione di Kirkuk, contesa tra curdi, arabi e turcomanni ed oggetto di molteplici attentati e scontri nelle ultime settimane.

    20/05/09

    Inghilterra - Si dimette lo Speaker dei Comuni

    In tempi di crisi economica la classe politica deve stare attenta non solo a come gestisce la legislazione, ma anche a come utilizza il proprio stipendio.
    Il mondo politico inglese è in subbiglio per una vicenda che forse da noi meriterebbe solo qualche trafiletto o qualche inchiesta di "Striscia la notizia" o delle "Iene", ma che a Lodra ha scatenato un'indignazione tale da portare alle dimissioni di un ministro, all'espulsione di due membri della Camera dei Comuni dai rispettivi partiti, all'apertura di un'inchiesta su due membri della Camera dei Lord e infine alle dimissioni, per la prima volta nella storia, dello Speaker della Camera dei Comuni.
    Lo Speaker è la terza carica più importante del Regno Unito dopo la Regina e il premier, e l'attuale politico che dal 2000 ricopre la carica, l'indipendente Michael Martin, è una figura conosciutissima in Gran Bretagna, sia pure spesso oggetto di critiche. Il suo comportamento nella gestione della vicenda dei rimborsi spese dei parlamentari è però sembrata rivolta soprattutto a mettere tutto a tacere, scatenando richieste di dimissioni da parte di tutti i partiti del paese.
    Lo scandalo è nato quando il "Daily Telegraph" è riuscito ad entrare in possesso grazie ad una talpa (pagata 150.000 sterline) dei documenti sull'utilizzo del rimborso spese a cui hanno diritto i legislatori britannici in aggiunta al loro "modesto" stipendio di 60.000 sterline l'anno (modesto al confronto di quello dei colleghi italiani, che prendono quasi il doppio). Dall'inchiesta è emerso come moltissimi parlamentari abbiano usato i rimborsi spese ad uso personale e senza alcuno scopo politico: riparazioni di case al mare e piscine, stipendi per giardinieri, rimborsi per lampadine, e persino l'estinzione di un mutuo inesistente. Altri ancora, sfociando nel ridicolo, hanno inserito nelle note spese anche cene al ristorante e acquisti di ogni tipo, dal vino agli assorbenti intimi.
    Il primo a saltare è stato il sottosegretario alla Giustizia Shahid Malik, laburista di origini asiatiche, costretto dal premier Brown a dare le dimissioni dopo che si era scoperto che si era fatto rimborsare, tra le altre cose, un "cinema da casa" e una poltrona per massaggi.
    Il leader dell'opposizione David Cameron ha dal canto suo ordinato ai suoi parlamentari di restituire allo stato tutti i rimborsi spese non utilizzabili per motivi di lavoro.
    Il governo ha messo in cantiere in tempi rapidi una riforma del sistema dei benefit per i parlamentari, anche per sedare la rabbia crescente nel paese, ma proprio a questo punto è intervenuto Michael Martin, che è stato attaccato prima per il mancato controllo sui rimborsi e poi per il tentativo di mettere il silenziatore allo scandalo.
    Paradossalmente, anche se Martin non si è macchiato in prima persona di nessun crimine, sarà quello che ne farà le spese più degli altri, costretto da un'indignazione bipartisan a lasciare la terza poltrona più importante del Regno.

    19/05/09

    USA - Obama parla di aborto a Notre Dame

    Paradossalmente, tra fronti di guerra e forche caudine parlamentari, il momento più difficile della ancor giovane presidenza Obama è arrivato da un'onoreficienza, la laurea honoris causa conferitagli dall'Università Notre Dame dell'Indiana, la più importante università cattolica americana.
    L'invito ad Obama ha causato polemiche tra gli attivisti cattolici, che dopo aver inutilmente provato a far cambiare idea al rettore, rimasto inflessibile, hanno organizzato proteste lungo tutta la giornata dell'evento.
    Alla fine il risultato ha soddisfatto tutti: i cattolici antiabortisti hanno avuto ampio risalto mediatico, i repubblicani hanno potuto sfruttare la scia delle contestazioni ad Obama, mentre il presidente ha saputo evitare la trappola con un discorso pragmatico e non ideologico che ha fatto sembrare pretestuose ed immotivate(e ideologiche) le proteste dei fondamentalisti cattolici. Una minoranza, se si pensa oltretutto che a novembre il 52% del voto cattolico è andato ad Obama, nonostante le sue posizioni pro-choice sull'aborto fossero ben note.
    Obama nel suo discorso ha invitato le diverse parti in causa a mettere da parte la retorica e l'ideologia e cercare un terreno comune di dialogo per arrivare a diminuire il ricorso all'aborto pur senza intaccare il diritto di scelta delle donne.
    Obama non si è tirato indietro e ha risposto direttamente alle contestazioni, dilungandosi sull'aborto come mai aveva fatto in campagna elettorale "Quando apriamo il nostro cuore e la nostra mente a coloro che non la pensano come noi o non credono a ciò in cui crediamo noi, è allora che scopriamo almeno la possibilità di trovare un terreno comune". Obama ha ammesso che le due parti in causa non troveranno mai accordo sull'opportunità che l'aborto sia legale, ma possono concordare sul fatto che la decisione di abortire non debba mai essere frutto di una decisione a cuor leggero, ma di una "dimensione morale e spirituale".
    Accolto da manifestanti e fischi, l'ingresso del presidente nell'aula magna del Notre Dame è stato invece accompagnato da applausi che gli hanno impedito di parlare per due minuti, e hanno ripetutamente interrotto il discorso. In aula erano comunque presenti manifestanti cattolici che esponevano croci gialle con le impronte dei piedi di un neonato. Fuori dall'università, la polizia ha arrestato una trentina dei 200 manifestanti che hanno provato a forzare i blocchi.
    All'inizio del discorso alcuni anziani presenti in sala hanno provato ad interrompere con urla il discorso di Obama, ma dopo poco sono stati accompagnati fuori. Obama, tralasciando il testo scritto, ha detto "Non dobbiamo sfuggire dalle cose che ci mettono a disagio".
    Obama ha invitato i 2.900 laureandi e le loro famiglie a mantenersi fermi in ciò che credono ma, ha aggiunto, "la grande ironia della fede è che ammette necessariamente il dubbio. Questo dubbio deve temprare le nostre passioni, perchè bisogna evitare di essere troppo convinti di avere sempre ragione".

    Fonte: Wall Street Journa

    18/05/09

    Sri Lanka - Si arrendono le tigri Tamil

    Si è conclusa evitando un ulteriore bagno di sangue la già fin troppo cruenta battaglia tra l'esercito regolare dello Sri Lanka e i ribelli delle "Tigri Tamil", ovvero le Tigri per la liberazione della patria Tamil, il gruppo secessionista che per decenni ha combattuto il governo cingalese per conquistare la secessione e fondare una repubblica socialista nel nord est dell'ex Ceylon.
    L'ultima fase della rivolta ha visto l'esercito governativo costringere i ribelli a rifugiarsi nell'ultima fetta del loro territorio ancora in loro possesso. La situazione è stata particolarmente drammatica per la presenza di numerosi civili tamil assieme ai combattenti. Questi civili non sono riusciti a scappare dai territori di battaglia, e molti, secondo il governo di Colombo, sono stati presi come ostaggio dalle Tigri.
    I siti d'informazione vicini ai ribelli hanno denunciato l'uccisione di quasi 2.000 persone negli ultimi tre giorni di combattimenti, e le tragiche condizioni in cui erano costretti i civili e i medici delle organizzazioni internazionali. Quest'ultimo aspetto è stato confermato in parte dalla Croce Rossa, che ha ammesso l'impossibilità di operare nel territorio.
    Il presidente cingalese Mahinda Rajapksa ha rifiutato ogni proposta dell'Onu di una tregua per far evacuare i civili, e ha stretto d'assedio i ribelli superstiti fino a costringerli alla resa. Inizialmente i tamil avevano minacciato un suicidio di massa, poi il movimento ha dichiarato di aver cessato le ostilità contro le truppe governative per "salvare la vita della nostra gente", mettendo così fine a più di 60 anni di lotta armata.
    Dal 1948, da quando l'allora Ceylon ha ottenuto l'indipendenza dalla Gran Bretagna, gli induisti tamil (il 18% della popolazione), è iniziata la lotta, che ha conosciuto un "salto di qualità" nel 1970, con l'inizio della campagna secessionista, e nel 1976 con la fondazione del movimento Ltte da parte di Velupillai Prabhakaran. tra guerre civili e attentati, la rivolta ha ucciso più di 70mila persone, capi di stato e ministri compresi, fino a quest'anno, quando l'esercito ha lanciato l'offensiva finale.
    Anche se le Tigri si sono ufficialmente arrese, il loro capo supremo Prabhakaran è ancora uccel di bosco. Dopo la resa dei ribelli, uno dei responsabili del movimento ha ammesso che il leader è ancora nel nord est del paese ed è pronto a partecipare a un processo di pace. La sorte del capo delle Tigri rimane comunque dubbia: alcuni garantiscono che è vivo con i suoi combattenti, altri pensano che si sia suicidato o sia fuggito. Il ministero della Difesa ha segnalato che le truppe non hanno finora trovato traccia di lui avanzando sul campo.
    Update: Il capo storico dei ribelli separatisti Tigri Tamil (Ltte), Vellupillai Prabhakaran, e' morto, ha detto un responsabile militare cingalese. L'alto responsabile militare, che ha chiesto l'anonimato, ha detto che Prabhakaran e' stato ucciso mentre cercava di fuggire nascosto in un'ambulanza dalla minuscola enclave di meno di un chilometro quadrato dove sono confinate le Tigri Tamil.

    15/05/09

    USA - John Edwards boicottato dal suo staff

    A quasi un anno dalla fine delle primarie democratiche che incoronarono Barack Obama candidato ufficiale alla Casa Bianca, emergono dettagli davvero sorprendenti sulla campagna elettorale di uno dei più accreditati sfidanti dell'attuale presidente, quel John Edwards che dopo essersi candidato alla vicepresidenza nel 2004 ha provato l'anno scorso a fare il terzo incomodo nella sfida tra Obama e la Clinton. Come sappiamo la sua corsa si è interrotta dopo poche settimane dai primi caucus in Iowa, e pochi mesi dopo il suo ritiro Edwards è stato travolto da uno scandalo sessuale dopo che è stata rivelata la sua relazione extraconiugale con una segretaria (mentre sua moglie Elizabeth lotta contro un cancro).
    Adesso il commentatore George Stephanopoulos ha raccontato che molti membri dello staff di Edwards erano a conoscenza della relazione extraconiugale già mesi prima delle primarie e, in un impeto di moralismo, avevano stretto un patto per boicottare la campagna elettorale del loro candidato se Edwards fosse sembrato vicino a conquistare la nomination.
    "Molti di loro si trovarono d'accordo nel dire, in pratica, se le cose si mettono bene e lui sembra ing rado di vincere, noi faremo in modo di mandare tutto all'aria" spiega Stephanopoulos.
    A questo punto molti commentatori americani si stanno chiedendo se in realtà il boicottaggio non sia davvero avvenuto, cosa che spiegherebbe il pessimo risultato di Edwards, che dopo essere arrivato secondo dopo Obama nei caucus dell'Iowa ha collezionato solo batoste, compreso un imbarazzante terzo posto nel suo stato, la South Carolina.
    Inoltre, come fa notare il chief political columnist di "Politico", il comportamento di questi staffer è sorprendente per più di un motivo, innanzitutto perchè il complotto non è certo più etico dell'adulterio, e poi perchè nessuno li obbligava a lavorare per un politico di cui non condividevano il comportamento. Se nel 1992 i collaboratori di Bill Clinton l'avessero pensata in questo modo, Clinton non sarebbe mai arrivato alla Casa Bianca.
    Sarebbe poi curioso sapere in che modo avrebbero voluto boicottare Edwards, dal momento che molte testate repubblicane avevano messo in giro la notizia dell'adulterio già mesi prima.
    E' più intrigante invece il gioco del "what if". Cosa sarebbe successo se Edwards fosse stato boicottato prima dei caucus dell'Iowa e non si fosse presentato? Howard Wolfson, l'ex direttore delle comunicazioni dello staff di Hillary Clinton non ha dubbi sul fatto che le cose sarebbero andate molto diversamente "I nostri elettori e quelli di Edwards erano grossomodo le stesse persone" spiega Wolfson mostrando un sondaggio secondo cui i due terzi di chi votò Edwards in Iowa avrebbe votato Hillary in seconda battuta "Noi avremmo vinto in Iowa e la Clinton avrebbe avuto la strada spianata per la nomination".
    Opinabile, visto che gli elettori di Edwards apprezzarono soprattutto il mea culpa dell'ex senatore a proposito del voto a favore della guerra in Iraq e altri sondaggi mostrano una preferenza di questi elettori per Obama. Ma soprattutto Wolfson ha spiegato che lo staff della Clinton sapeva qualcosa dell'adulterio di Edwards, ma nessuno pensò mai di approfondire o sfruttare questo elemento.
    Marc Abinder, direttore di "The Atlantic", afferma invece che sia lo staff della Clinton che quello di Obama sapevano perfettamente della relazione extraconiugale di Edwards, e soprattutto i collaboratori della Clinton erano particolarmente decisi a non far sparire la notizia dalle pagine dei giornali, anche se poi non ce ne fu bisogno perchè furono gli elettori a decretare la fine politica di Edwards.

    14/05/09

    India - In testa il partito di Sonia Gandhi

    Il partito del Congresso di Sonia Gandhi e' in testa alle elezioni indiane, secondo un exit poll diffuso dalle televisioni indiane. Il partito della Gandhi e i suoi alleati riuniti nella United Progressive Alliance (Upa) avrebbero dai 195 ai 201 seggi; la National Democratic Alliance, guidata dalla destra nazionalista indu' del Bharatiya Janata Party, dai 189 ai 195 seggi. Se cosi' fosse, nessuno dei due grandi schieramenti avrebbe la maggioranza necessaria per governare, 272 seggi (Fonte: Ansa).
    Le elezioni sono durate un intero mese, suddivise in cinque tornate elettorali, e i risultati definitivi sono attesi sono per sabato. Si stima che ben 714 milioni di elettori, dei 750 aventi diritto, abbiano depositato la scheda negli 828mila seggi.
    Il risultato incerto delle elezioni è dovuto anche all'inedita quantità di partiti che si sono presentati ai nastri di partenza: tra questi, i due partiti così detti nazionali, l’India National Congress (Inc) ed il Bharatya Janata Party (Bjp); i tre partiti comunisti che sono ben rappresentati in Kerala e West Bengal e presenti in molti altri stati; i nuovi partiti dei fuori-casta sviluppatisi nell’ultimo ventennio ed al governo nel Bihar ed in Uttar Pradesh (Fonte: Asianews).
    Le due alleanze che prima costituivano il governo, United Progressive Alliance (UPA) e l’opposizione National Democratic Alliance (NDA) si sono praticamente dissolte, con qualche eccezione, ed ogni partito si è presentato da solo all’elettorato.
    Se i sondaggi dovessero essere confermati, al partito della Gandhi toccherà l'onere e l'onore di cercare di mettere insieme una maggioranza per formare il governo per i prossimi cinque anni. Rientrebbero in gioco quindi i partiti minori, e si potrebbe andare incontro ad alleanze eterogenee tra partiti laici e partiti religiosi, come il Bjp, o ad un ritorno al governo dei comunisti, che per quattro anni sono stati al governo col partito del Congresso e poi l’hanno lasciato per protesta contro il patto nucleare con gli Stati Uniti, e ora invece parlano di una possibilità di governo senza Congress e senza Bjp, con un’alleanza coi partiti dei fuori-casta. Oppure i comunisti potrebbero rientrare nel Congress, ma come condizione vorrebbero un nuovo premier al posto di Manmohan Singh.

    13/05/09

    San Marino protesta con l'Italia per la puntata di "Report"

    Incidente diplomatico tra San Marino e Italia. La miccia che ha fatto scattare il caso è la puntata di "Report" andata in onda su Rai 3 domenica scorsa, dal titolo "Il re è nero", dedicata al sistema bancario di San Marino.
    Questa la presentazione della puntata (visionabile sul sito della Rai) scritta dal suo autore Paolo Mondani
    "San Marino è uno stato sovrano tra la provincia di Rimini e quella di Pesaro-Urbino. Lingua ufficiale è l'italiano, quella parlata è il dialetto romagnolo. Non esiste dogana. La Banca d'Italia, da qualche mese, ha imposto ai nostri istituti di credito di trattare le banche sammarinesi come se fossero delle Isole Cayman. Il Moneyval, organismo del Consiglio d'Europa che si occupa di riciclaggio, ha decretato San Marino come stato a rischio. E l'Ocse l'ha infilato nella lista grigia dei paradisi fiscali. Qui il credo si chiama segreto bancario e società anonime. San Marino vuol dire 12 banche e 59 finanziarie. Tra il 1999 e il 2007 il prodotto interno lordo è cresciuto in media del 5,66 per cento l'anno. Ci sono 6 mila imprese, in maggioranza di italiani trasferiti qui per godere dei vantaggi del sistema fiscale. Le banche sammarinesi nel 2001 raccoglievano 9 miliardi di euro l'anno, nel 2007 14 miliardi. Se dividiamo 14 miliardi per i 31 mila abitanti scopriamo che nel 2007 ogni sammarinese ha versato 450 mila euro in una sua banca. E se non è andata così, come è ovvio, vuol dire che molti italiani preferiscono portare qui i loro soldi. Perché?"

    I sanmarinesi non hanno gradito. “Una trasmissione che ha detto falsità, che ha attaccato San Marino, la sua indipendenza e la sua sovranità. Un ufficiale delle Fiamme gialle ha detto cose gravemente false riguardo alla concessione delle rogatorie internazionali da parte di San Marino” A dirlo è il segretario alle Finanze della Repubblica di San Marino, Gabriele Gatti, a conclusione dell'incontro con l'ambasciatore che e' stato convocato dai rappresentanti del governo del Titano. "Abbiamo chiesto all'ambasciatore di rappresentare al governo italiano, alle sedi istituzionali, al comando generale della Guardia di Finanza e alla direzione generale della Rai la nostra indignazione per la trasmissione 'Report', che ha manipolato l'informazione distorcendola".
    Parole dure anche da parte del segretario di Stato per l’Industria, Marco Arzilli:
    “Né la trasmissione di indagine di Milena Gabanelli, né la Guardia di Finanza italiana credo possano fare valutazioni della nostra legislazione. E’ il governo di San Marino a dover scegliere e in Tv non solo non è stato detto che il governo è cambiato da poco, ma nemmeno che noi abbiamo potenziato i controlli e che abbiamo revocato la licenza a Sogefin, la finanziaria incriminata dal team di Report di avere avuto a che fare con Francesco Lo Piccolo, boss della Camorra”.
    Nella seduta del Congresso di Stato di San Marino la puntata di "Report" è stato il tema centrale, ma le polemiche tra la maggioranza di Alleanza Popolare e i partiti dell'opposizione, che hanno denunciato manovre spregiudicate del Governo nell'ambito degli istituti di credito.

    12/05/09

    Israele - Revocata la cittadinanza a quattro arabo israeliani

    Il programma del ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman era chiaro fin dalla campagna elettorale: separare gli ebrei e gli arabi all'interno di Israele.
    Si pensava che, una volta al potere, il leader ultraortodosso principale alleato di Netanyahu avrebbe smussato gli angoli della sua proposta, sospetto avvalorato dal basso profilo tenuto da Lieberman nei suoi primi incontri internazionali (la scorsa settimana era in Italia). Così non è stato, e mentre in Europa Lieberman lasciava intendere di essere pronto ad aperture nei confronti dei palestinesi, in patria a quattro cittadini arabi israeliani è stata tolta la cittadinanza. In realtà si parla di casi molto più numerosi, c'è chi dice oltre 30, ma mancano fonti ufficiali. L'iniziativa è partita dal ministro degli Interni Eli Yishai, esponente del partito ultraortodosso Shas, e l'accusa è di essere fiancheggiatori di gruppi nemici d'Israele. Nessuno di questi cittadini ha però mai subito un processo o un'indagine per tradimento o spionaggio, semplicemente si tratta di persone che hanno lasciato Israele per trasferirsi in paesi arabi ritenuti "nemici di Israele".
    Gli arabi rappresentano il 20% della popolazione israeliana, e in massima parte sono cittadini di Israele con pieni diritti, avendo scelto di aderire allo stato costituito nel 1948. Si tratta infatti quasi esclusivamente dei cittadini (e dei loro discendenti) che nel 1948 non abbandonarono le loro case e rimasero in quello che diventava lo stato israeliano.
    In campagna elettorale Lieberman aveva proposto l'immediata espulsione di tutti gli arabi israeliani che non avessero sottoscritto una dichiarazione di 'lealtà' allo Stato d'Israele. Inoltre, nel 2006, dichiarava che tutti i parlamentari arabi della Knesset che, anche in passato, avessero avuto contatti con il movimento di Hamas dovevano essere fucilati.
    Intanto, nel suo viaggio europeo, Lieberman ha affrontato il problema del conflitto israelo-palestinese suggerendo una strada inedita, dicendo di pensare alla creazione - nel giro di 5-7 anni - di una soluzione "tipo Cipro". Non è ben chiaro cosa abbia voluto dire, in quanto Cipro è divisa in due perchè l'esercito turco l'ha invasa nel 1974 separando la comunità greca da quella turca. Inoltre negli ultimi mesi sono partiti dei negoziati per arrivare ad una riunione dello stato, ma ovviamente Lieberman non si riferiva a questa soluzione, quanto a quella attuale, con due governi indipendenti.

    11/05/09

    USA - Altre rivelazioni sulle torture della CIA

    Tornano a far parlare di sè i memoriali diramati il mese scorso dal Dipartimento di Giustizia sui metodi utilizzati dalla CIA nei confronti dei detenuti sospettati di terrorismo, e che sfociano nelle torture. Finora l'attenzione si era concentrata sul waterboarding e sulle altre tecniche di interrogatorio espressamente introdotte dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, ma i memoriali mettono in luce anche l'uso frequentissimo della tecnica della privazione del sonno, tecnica che rientrava già in percedenza tra quelle adoperate negli interrogatori, ma non in questa quantità. Proprio il fatto che venga generalmente ritenuta più accettabile e meno dannosa, oltre che più efficace, ne ha favorito un amoio uso, e sebbene Obama l'abbia inserita tra le tecniche messe al bando, la CIA sta combattendo per poterla reintrodurre.
    Oltre che più diffuso, questo metodo è stato più controverso di quanto si potesse immaginare. Un rapporto del 2004 di un ispettore della CIA denunciava l'abuso della tecnica e del modo in cui veniva applicata. Secondo i memoriali, i detenuti venivano incatenati al pavimento e costretti a stare in piedi, ammanettati. I detenuti indossavano solo un pannolone e gli veniva impedito di mangiare. Se, anche in quella posizione, riuscivano ad addormentarsi, venivano immediatamente svegliati tirando le catene. A un certo punto, alla CIA venne consentito di utilizzare questo metodo per 11 giorni di fila, poi il limite fu ridotto a 7. Secondo i memoriali, i detenuti venivano monitorati dal personale medico affinchè non subissero danni fisici, ma un rapporto della Croce Rossa del 2007 parla di cicatrici sui polsi e sulle caviglie dei prigionieri. I memoriali riportano inoltre che quando i detenuti non potevano più restare in piedi, venivano distesi sul pavimento con gli arti posizionati in tal modo da recuperare energia ma abbastanza scomodi da non poter prendere sonno. La Croce Rossa riporta anche che i detenuti venivano sottoposti a musica altissima e rumori ripetitivi.
    Dai memoriali, risulta che la privazione del sonno viene considerata parte fondamentale dell'interrogatorio, meno grave di altri metodi "correttivi" o "coercitivi", e in più viene visto all'interno della CIA come un metodo in grado di avere lo straordinario vantaggio di spezzare la resistenza dei detenuti senza causare danni permanenti.
    Nel 2007, dopo che la Corte Suprema obbligò la Casa Bianca a far rientrare i programmi della CIA nell'ambito della Convenzione di Ginevra, Bush firmò un ordine esecutivo che riconosceva come diritto fondamentale dei detenuti "acqua e cibo in misura adeguata, riparo da caldo e freddo, vestiario necessario", ma nessuna menzione per il sonno.
    Gli ufficiali della CIA difendono il loro operato sostenendo che la privazione del sonno non causa danni permanenti, e anzi che il recupero dei detenuti è "sorprendentemente veloce", citando ricerche scientifiche a supporto di questa tesi.
    Ma il "Los Angeles Times" ha intervistato James Horne, direttore del Centro di Ricerca sul sonno della Loughborough University, uno degli studiosi citati dalla CIA. Horne ha detto di non essere mai stato consultato, e ha accusato la CIA di aver manipolato i risultati dei suoi studi estrapolando brani e decontestualizzandoli.

    Fonte: Los Angeles Times

    08/05/09

    La Spagna aiuta gli immigrati...a casa loro

    Quante volte abbiamo sentito dire da chi contrasta il fenomeno dell'immigrazione la fatidica frase "Aiutiamoli a casa loro"?. C'è chi ha deciso di mettere in pratica questo principio, ed è il ministro del Lavoro del governo spagnolo, il socialista Celestino Corbacho (foto), pioniere di un sistema senza dubbio originale per contrastare l'immigrazione.
    Il ministro spagnolo ha prima fatto approvare un "piano di ritorno per i disoccupati extracomunitari", che prevede il pagamento di due anni di sussudio di disoccupazione a quegli immigrati che, dopo aver perso il lavoro, tornano in patria con l'impegno di non fare ritorno in Spagna per almeno tre anni. Ora Capucho ha proposto un nuovo piano: preso atto dell'impossibilità di contenere i flussi di immigrati che provengono da paesi dell'Unione Europea, in prevalenza dalla Romania, e delle ingenti risorse spese per questi immigrati che non si possono rimpatriare in maniera coatta, il governo ha annunciato che i rumeni attualmente risiedenti in Spagna potranno ricevere un sussidio di disoccupazione da parte di Madrid a patto che tornino in patria e che lì cerchino attivamente lavoro (l'impegno sarà certificato dagli uffici di collocamento rumeni). Il sussidio potrà essere comodamente riscosso negli uffici postali della Romania. La notizia, riportata dall'edizione online del quotidiano spagnolo El Mundo, è stata riferita ai cronisti dallo stesso ministro, sul volo che lo riportava a Madrid dopo una visita in Romania e segue di poche ore l'annuncio della verifica in corso per capire se è possibile incentivare economicamente i romeni a tornare a casa. Corbacho, insomma, è pronto a trovare fondi per liberare i suoi connazionali dei disoccupati stranieri.
    Corbacho nelle scorse settimane è stato oggetto di polemiche in patria per la proposta di legge, poi bocciata, che prevedeva l'inserimento nelle norme sull'immigrazione della possibilità di multare fino a 10.000 euro tutte le persone che fornivano aiuto ai migranti irregolari presenti su suolo spagnolo.Il che voleva dire equiparare i trafficanti di esseri umani e gli sfruttatori della manodopera clandestina alle organizzazioni non governative che si battono per il rispetto dei diritti umani dei migranti. Alla fine il governo spagnolo ha ceduto alle pressioni dell'opinione pubblica indignata dalla norma e dalla mancata distinzione rispetto al concetto di 'aiuto all'immigrazione clandestina' . Come suggerito, del resto, dall'organo supremo della magistratura iberica, il Cgpj, che aveva ravvisato nella norma il rischio di ''criminalizzare l'attività di pura solidarietà delle associazioni''.